Storie di Pow(H)er Generation
Storie di Pow(H)er Generation con imaginary
Nome e Cognome | Lucia Pannese
Ruolo | CEO
Nome PM| imaginary srl
Settore | Healthtech
Anno di lancio | 2004
Per la rubrica Storie di Pow(H)er Generation,
oggi intervistiamo la founder di imaginary
Di cosa si occupa e qual è il punto di forza di imaginary?
imaginary progetta e sviluppa tecnologie nell’ambito della salute e del wellbeing: si tratta di soluzioni che realizzano delle vere e proprie esperienze per gli utenti che ne fruiscono. Principalmente basate su serious games, permettono di porre seriamente il paziente al centro: infatti vengono co-progettate non solo con specialisti dell’area medica di riferimento ma anche insieme ai pazienti target. Il punto di forza è infatti il team multi-disciplinare, nel quale psicologi lavorano quotidianamente con game designer, tecnologi con profili diversi, artisti grafici ed esperti di formazione. Questo team lavora fin dalla fondazione dell’azienda a progetti di ricerca europei, potendo quindi sperimentare metodologie e tecnologie sempre innovative ed avere accesso appunto agli esperti e ai pazienti.
Come è nata l’idea?
L’idea in realtà è nata da un’esigenza di rinnovamento che aveva la formazione già più di 15 anni fa, cioè di diventare fortemente esperienziale anche in modalità virtuale. Così nacque imaginary: i primi lavori e progetti di ricerca internazionali furono incentrati su games per formazione ed educazione. Poco dopo però mi accorsi che traslare le nostre competenze in ambito medico sanitario non solo aveva senso, ma poteva portare risultati di valore per tutti gli stakeholders coinvolti.
Con imaginary hai realizzato un tuo sogno nel cassetto o hai stravolto i tuoi piani?
Mah, in realtà imaginary è stata l’espressione di una forte insoddisfazione a lavorare nelle aziende italiane che non lasciano mai spazio alla creatività e all’innovazione in senso forte – per lo meno quelle dove mi sono sperimentata io. Quindi più che un sogno nel cassetto rappresenta il mio bisogno di libertà e di potermi mettere in gioco sul serio.
Che impatto ha avuto l’emergenza Covid19 sull’organizzazione del tuo business?
L’emergenza Covid19 ci ha stravolto in parte il modo di lavorare: attualmente è un anno e mezzo che lavoriamo con la formula dello smart working. Anche se in parte siamo abituati, perché nei progetti di ricerca europei molte fasi avvengono da remoto coi partner, questa volta però abbiamo allargato la modalità anche al nostro team interno. La cosa devo dire che non ha creato impatti negativi né sulla produttività né sulla voglia e capacità di collaborare dello staff.
Dall’altra parte la pandemia pur nella sua tragicità ha avuto un impatto molto positivo sul business: noi da 8 anni lavoriamo alla nostra soluzione di tele-riabilitazione basata su serious games. L’accettazione di un concetto simile è stata notevolmente accelerata e improvvisamente si sono accelerate le fasi di richiesta di informazioni e talvolta anche di adozione. Dico talvolta, perché nelle varie ondate di peggioramento della pandemia, naturalmente si sono di nuovo manifestati dei rallentamenti dovuti a priorità più che ovvie.
In base alla tua esperienza reputi che il percorso professionale femminile è più complicato di quello maschile?
Io credo che dipenda molto dal tipo di percorso: lavorando nell’ambito della ricerca, non c’è davvero differenza. Per lo meno io non ne ho trovate. Senz’altro l’atteggiamento “dall’altra parte” dipende sempre dall’apertura mentale e dal livello culturale. Anche ora, dopo 17 anni e con una firma “CEO” nella mia mail [noi non mettiamo volutamente titoli accademici nella firma aziendale] mi trovo chi – con tutti i suoi “phd, ing…” nella sua firma – si rivolge a me come se fossi la ragazzina dell’amministrazione, ma basta non farci caso e andare dritti per la propria strada. Alla fine, come sempre, sono la competenza e la serietà che fanno il vero da biglietto da visita.
Che consiglio daresti ad un aspirante imprenditrice che vorrebbe avviare un business?
Le consiglierei prima di tutto di verificare con persone di esperienza se è credibile come manager e se ha da proporre qualcosa di particolare. Poi di verificare anche se oltre all’idea di business pensa di aver le carte in regola per saperla gestire l’azienda (che non è fatta solo di una buona idea ma anche della tediosissima e costosa gestione quotidiana). Infine se ha la voglia di sospendere una vita “normale” e comoda per dedicarsi alla sua impresa. Se una di queste condizioni non p verificata, le consiglierei di ripensarci molto seriamente.
Come sei cambiata in questi anni da imprenditrice?
Sicuramente mi sono resa conto nel tempo che all’inizio non avevo la più pallida idea di che cosa significasse sul serio mandare avanti un’azienda, pur avendo lavorato per parecchi anni in aziende diverse, anche con ruoli di responsabilità, ed avendo quindi accumulato dell’esperienza in diversi ambiti. Penso di poter dire di essermi calmata molto dopo l’affanno iniziale, perché pur avendo un’idea in testa nei primi anni annaspavamo per capire come portarla sul mercato e quale potesse essere la strada più promettente. Preciso che si tratta di approcci e tecnologie che oggi cominciano ad essere relativamente conosciuti e che 17 anni fa nessuno conosceva, quindi la difficoltà di portare sul mercato una soluzione decisamente complessa e multidisciplinare non è mai stata trascurabile.
Ad un certo punto ho affiancato un percorso di crescita personale un po’ particolare, che mi ha aiutata molto anche a definire con molta più chiarezza gli obiettivi aziendali e ora sono senz’altro più rilassata nel mio ruolo, anche se comunque non è una posizione semplice da ricoprire.
Grazie a Lucia per aver condiviso la tua storia di empowerment,
con l’augurio che possa essere d’ispirazione per le Founder di domani!
Per maggiori informazioni sull’iniziativa Pow(H)er Generation ti invitiamo a scoprire di più sul sito ufficiale di Cariplo Factory.